Su questo tema si deve partire da un principio sancito nella nostra Costituzione; l'art 32 al comma 2 così dice: "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana." Proviamo a capirne il significato.
La prima parte del 2 comma risuona evidente. Pare evidente che il termine nessuno indichi alcuna persona, indistintamente dal fatto che essa sia un cittadino, ma vuole riferirsi univamente al suo essere persona umana( pare che la derivazione sia ne ipse unum o ne quidem unum). Questo primo concetto è di primissimo piano nel dibattito pubblico, perchè affermando la non disponibilità della vita, quindi l'impossibilità di scegliere la morte come conseguenza ultima dell'abbandono alla patologia, intesa questa come qualunque tipo di malattia, cioè una alterazione dello stato fisiologico o psicologico del corpo in grado di ridurre, modificare negativamente o persino eliminare le ordinarie funzioni del corpo come organismo, senza esercizio verso di essa di alcuno contrasto, si esprime implicitamente il divieto di scegliere cure inefficaci o inerzia semplicemente. Bisogna poi ricordare, come risulta dalla elementare definizione di patologia, l'esito di morte, è una delle possibilità a cui conduce la patologia ma non è l'unica, anzi ad essa affiancandosi tutte le sole riduzioni di funzionalità cui la patologia può condurre nel suo esito finale. Ciò per dire che porre in crisi il principio per cui le cure sono obbligatorie, può indurre ad una limitazione della libertà ben maggiore di quella circa la disponibilità della vita.
Affermare il precetto dell'art 32 significato quindi porre un limite alla medicina. Non il limite che le è proprio come disciplina, il limite concettuale o il limite pratico, bensì un limite giuridico, essendo la medicina una scienza che incide più delle altre sull'uomo.
Ora la questione più delicata, accettato il principio del rifiuto delle cure ( cosa ultimamente non così pacifica), riguardo il come questo rifiuto si renda conoscibile a coloro che sarebbero chiamati ad esercitare i trattamenti sanitari. Approfitto poi per ricordare che la costituzione parla di trattamenti sanitari, e non soltanto di terapie. Trattare ha come significato precendente a quello secondario di curare, il maneggiare, derivando da latino tractum supino di trahere, cioè trarre, da cui si prende l'idea derivata di muovere nello spazio con moto continuato.
Cioè il trattamento è una qualsiasi attività operata nell'ambito di una struttura sanitaria o di un soggetto svolgente attività medica o paramedica. Quindi, il concetto è certamente più ampio di quello definito da θεραπεία, che indica il curare o modo di curare escludendo magari il mantenere ( ove il mantenere non sia un continua opporsi all'incidere della patologia.
Aggiungo una considerazione: se si dovesse costruire la regola dell'art 32 nel seguente modo, cioè nessuno può essere obbligato ad un trattamente sanitario purchè non lo porti a privarsi della vita, o meglio della sussistenza in vita, cioè di quella condizione che distingue gli oggetti animati da quelli inanimati, si dovrebbe cominciare a riflettere intensamente sulle possibili relazioni causali, non sempre perfettamente dominabili; se per es. si rifiutasse la cura di un dente ammalato, normalmente la patologia porterebbe alla perdita di un dente e questo sarebbe il suo esito, non già quello di uccidere l'organismo. Ma potrebbe anche capitare che in seguito a questo, si diffonda per qualche motivo un'infezione nell'organismo e che questa progredendo invece privi della vita. Ora a che punto di questo percorso scatterebbe l'obbligo di cura e l'estinzione del diritto al rifiuto? (non so forse dovremmo pensare che una legge ad hoc prevede un trattamente sanitrio obbligatorio con un qualche antibiotico immediato tempo successivo alla caduta del dente o al termine del processo di erosione); Così pensata mi sembrerebbe un po' pasticciata.
Ora procedendo dal principio del rifiuto delle cure, si pone il problema chi sia preposto a rifiutare. L'art 32 usa appunto il pronome "nessuno" intendendo facendo intendere con ciò che il singolo avedno pieno facoltà di decisione personalmente la esprime; su questo punto non ci sono particolari problemi.
Capita però in tutte le società, che taluni individui siano, causa la malattia per la quale potrebbero rifiutare le cure o per altra pregressa, incapaci di esprimere un valido consenso.
Si badi che incapaci significa privi in parte o del tutto della capacità di agire.
Quando si è privi della capacità di agire, accade che l'ordinamento cerchi di tamponare questa carenza affiancando all'incapace, alcune figure( persona fisiche talvolta integrate dal controllo giudiziario) che integrino questa mancanza potendo esse stesse esprimersi in vece di chi non può più farlo. Una di queste figure può essere il tutore. Il padre di Eluana Englaro ricopriva proprio questa posizione affiancato anche da un curatore. La domanda è: il tutore( sia esso il padre o no) può decidere di staccare la spina? Cioè, può decidere per l'interruzione di un trattamento sanitario che mantenga in vita opponendosi ad una patologia, oppure accponsentire per una terapia( che appartiene al genus del trattamento sanitario) che sia particolarmente rischiosa( secondo la probabilità o la statistica medica)?
I giudici nel caso di Eluana, hanno autorizzato il padre a prendere una decisione, non hanno decretato che si dovesse staccare la spina. E su questo punto infatti che si può criticare la scelta del padre-tutore, che sulla base di pochi elementi, si è fatto portatore di una volontà certa e indiscutibile della figlia circa le di lei volontà,(quella che si era manifestata prima del tragico incidente la rese incapace nonche diede l'avvio ad uno percorso di compromissione di alcunie funzioni fisiologiche del corpo) sui trattamenti sanitari da doversi subire, certezza sulla quale ha poi modellato la sua scelta di tutore.
Questo è il punto centrale; su quali criteri deve costruirsi la scelta del tutore in materia di salute e trattamenti sanitari? E questi criteri devono essere dettati dal legislatore, dall'esecutivo, dalla discrezionalità del tutore stesso e dalle indicazioni predette dall'incapace quando era capace.
TO BE CONTINUED....
La prima parte del 2 comma risuona evidente. Pare evidente che il termine nessuno indichi alcuna persona, indistintamente dal fatto che essa sia un cittadino, ma vuole riferirsi univamente al suo essere persona umana( pare che la derivazione sia ne ipse unum o ne quidem unum). Questo primo concetto è di primissimo piano nel dibattito pubblico, perchè affermando la non disponibilità della vita, quindi l'impossibilità di scegliere la morte come conseguenza ultima dell'abbandono alla patologia, intesa questa come qualunque tipo di malattia, cioè una alterazione dello stato fisiologico o psicologico del corpo in grado di ridurre, modificare negativamente o persino eliminare le ordinarie funzioni del corpo come organismo, senza esercizio verso di essa di alcuno contrasto, si esprime implicitamente il divieto di scegliere cure inefficaci o inerzia semplicemente. Bisogna poi ricordare, come risulta dalla elementare definizione di patologia, l'esito di morte, è una delle possibilità a cui conduce la patologia ma non è l'unica, anzi ad essa affiancandosi tutte le sole riduzioni di funzionalità cui la patologia può condurre nel suo esito finale. Ciò per dire che porre in crisi il principio per cui le cure sono obbligatorie, può indurre ad una limitazione della libertà ben maggiore di quella circa la disponibilità della vita.
Affermare il precetto dell'art 32 significato quindi porre un limite alla medicina. Non il limite che le è proprio come disciplina, il limite concettuale o il limite pratico, bensì un limite giuridico, essendo la medicina una scienza che incide più delle altre sull'uomo.
Ora la questione più delicata, accettato il principio del rifiuto delle cure ( cosa ultimamente non così pacifica), riguardo il come questo rifiuto si renda conoscibile a coloro che sarebbero chiamati ad esercitare i trattamenti sanitari. Approfitto poi per ricordare che la costituzione parla di trattamenti sanitari, e non soltanto di terapie. Trattare ha come significato precendente a quello secondario di curare, il maneggiare, derivando da latino tractum supino di trahere, cioè trarre, da cui si prende l'idea derivata di muovere nello spazio con moto continuato.
Cioè il trattamento è una qualsiasi attività operata nell'ambito di una struttura sanitaria o di un soggetto svolgente attività medica o paramedica. Quindi, il concetto è certamente più ampio di quello definito da θεραπεία, che indica il curare o modo di curare escludendo magari il mantenere ( ove il mantenere non sia un continua opporsi all'incidere della patologia.
Aggiungo una considerazione: se si dovesse costruire la regola dell'art 32 nel seguente modo, cioè nessuno può essere obbligato ad un trattamente sanitario purchè non lo porti a privarsi della vita, o meglio della sussistenza in vita, cioè di quella condizione che distingue gli oggetti animati da quelli inanimati, si dovrebbe cominciare a riflettere intensamente sulle possibili relazioni causali, non sempre perfettamente dominabili; se per es. si rifiutasse la cura di un dente ammalato, normalmente la patologia porterebbe alla perdita di un dente e questo sarebbe il suo esito, non già quello di uccidere l'organismo. Ma potrebbe anche capitare che in seguito a questo, si diffonda per qualche motivo un'infezione nell'organismo e che questa progredendo invece privi della vita. Ora a che punto di questo percorso scatterebbe l'obbligo di cura e l'estinzione del diritto al rifiuto? (non so forse dovremmo pensare che una legge ad hoc prevede un trattamente sanitrio obbligatorio con un qualche antibiotico immediato tempo successivo alla caduta del dente o al termine del processo di erosione); Così pensata mi sembrerebbe un po' pasticciata.
Ora procedendo dal principio del rifiuto delle cure, si pone il problema chi sia preposto a rifiutare. L'art 32 usa appunto il pronome "nessuno" intendendo facendo intendere con ciò che il singolo avedno pieno facoltà di decisione personalmente la esprime; su questo punto non ci sono particolari problemi.
Capita però in tutte le società, che taluni individui siano, causa la malattia per la quale potrebbero rifiutare le cure o per altra pregressa, incapaci di esprimere un valido consenso.
Si badi che incapaci significa privi in parte o del tutto della capacità di agire.
Quando si è privi della capacità di agire, accade che l'ordinamento cerchi di tamponare questa carenza affiancando all'incapace, alcune figure( persona fisiche talvolta integrate dal controllo giudiziario) che integrino questa mancanza potendo esse stesse esprimersi in vece di chi non può più farlo. Una di queste figure può essere il tutore. Il padre di Eluana Englaro ricopriva proprio questa posizione affiancato anche da un curatore. La domanda è: il tutore( sia esso il padre o no) può decidere di staccare la spina? Cioè, può decidere per l'interruzione di un trattamento sanitario che mantenga in vita opponendosi ad una patologia, oppure accponsentire per una terapia( che appartiene al genus del trattamento sanitario) che sia particolarmente rischiosa( secondo la probabilità o la statistica medica)?
I giudici nel caso di Eluana, hanno autorizzato il padre a prendere una decisione, non hanno decretato che si dovesse staccare la spina. E su questo punto infatti che si può criticare la scelta del padre-tutore, che sulla base di pochi elementi, si è fatto portatore di una volontà certa e indiscutibile della figlia circa le di lei volontà,(quella che si era manifestata prima del tragico incidente la rese incapace nonche diede l'avvio ad uno percorso di compromissione di alcunie funzioni fisiologiche del corpo) sui trattamenti sanitari da doversi subire, certezza sulla quale ha poi modellato la sua scelta di tutore.
Questo è il punto centrale; su quali criteri deve costruirsi la scelta del tutore in materia di salute e trattamenti sanitari? E questi criteri devono essere dettati dal legislatore, dall'esecutivo, dalla discrezionalità del tutore stesso e dalle indicazioni predette dall'incapace quando era capace.
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