lunedì 30 marzo 2009

Le illuminazioni



Le illuminazioni sono una raccolta di forme architettoniche e vocali, senza anteriorità, senza modello, senza luogo prefigurato.
Come scrisse il poeta francese Joe Bousquet1 "quanti poeti richiamandosi a Rimbaud non sono mai veramente penetrati nella sua opera e prolungano indefinitamente lo stupore che ne hanno tratto. Sono i guardiani dell'oscurità di Rimbaud. Ora Rimbaud non è oscuro. Niente gli più estrneo del bisogno di dichiararsi irresponsabile dei suoi scritti. che integri all'espressione il ritmo dei suoi passi o il soffio del racconto, che si lasci incantare dal ricordo di un vaudeville visto alla fiera, Rimbaud accresce nell'opera la parte dell'uom, assicura che nulla si umano si compia nel verbo senza rivestire una forma. La poesia non è più un riflesso dell'uomo: ha il peso del suo essere e reca tutti i tratti del suo destino".

Così scrive lo stesso Rimbaud2:
Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente.
Il poeta diventa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sof- ferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che le quintessenze. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il gran malato, il gran criminale, il gran maledetto, - e il sommo Sapiente! - Perché giunge all'ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni al- tro! Giunge all'ignoto, e quando, sbigottito, finisse per perdere l'intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe viste! Che crepi in quel suo balzo attraverso cose inaudite e ineffabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l'altro si è accasciato!

(Le poete se fait voyant par un long, immense e raisonné dérèglement de tous le sens. Toutes les formes d'amour, de souffrance, de folie; il cherche lui-meme, il épuise en lui tous les poisons, pour n'en garder que les quintessences. Ineffable torture, où il a besoin de toute la foi, de toute la force surhumaine, où il devient entre tous le grand malade, le grand criminel, le grand maudit - et le supreme Savant! Car il arrive à l'inconnu! Puisqu'il a cultivé son ame, déjà riche, plus qu'aucun! il arrive à l'inconnu, et quand, affolé, il finirait par pardre l'intelligence de ses visions, il les a vues!)

Ancora Rimbaud parla del linguaggio universale, che non è solo quello della lingua, ma anche quello dei suoni, dei colori, dei profumi:

- Del resto, ogni parola essendo idea, il tempo di un linguaggio universale verrà! Bisogna essere un accademico, - più morto di un fossile, - per rifinire un dizionario di qualsiasi lingua. I deboli che si mettessero a riflettere sulla prima lettera dell'alfa- beto, potrebbero precipitare presto nella follia! -
- Questa lingua sarà dell'anima per l'anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, del pensiero che aggancia il pensiero e che tira.

La raccolta non fu voluta e quindi ordinata dal poeta, ma dal successivo ritrovamento di suoi manoscritti sparsi su fogli e foglietti occasionali; si tratta di 42 brani che compongono l'opera vera e propria e dettagliatamente.


1 l'intervento è riportato nella edizione delle "Illuminations" a cura di Adriano Marchetti, Piergiorgio Pazzini Stampatore Editore, 2006
2 tutti i brani di R. sono tratti Lettre de Rimbaud a Paul Demeny, dite du voyant, 15 Mai 1871

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domenica 29 marzo 2009

boccaccio boccaccino


Vorrei ricordare Boccaccio Boccaccino, pittore del primo rinascimento, della cui formazione si sa poco, essendo, le sue prime opere attestate, andate perdute. Nasce a Ferrara nel 1468
Sicuramente conobbe la pittura del Giorgione, dovendo soggiarnare a Venezia nei primi anni del XVI, dove è attestata la sua presenza (1506). Sicuramente il classicismo rinascimentale delle corti padane, segna la sua prima formazione. Fu padre di Camillo anch'egli pittore del quale sappiamo aver forse frequentato la bottega del Tiziano e conosciuto la pittura del Pordenone. Muore a Cremona nel 15251




Successivamente al 1506 si occupò dei lavori per la decorazione a fresco del Duomo di Cremona, con un Cristo in gloria e un Annunciazione).
A Roma le fonti ricordano una pala nella chiesa di Santa Maria in Transpontino o Traspontina (chiesa nel XVI sec in sostituzione, curiosità questa, di una precedente fatta abbattere da Pio IV perchè di ostacolo alle bombarde di Castel Sant'Angelo. Infatti la chiesa ha una cupola molto schiacciato proprio per questo motivo.


Dall'alto al basso vediamo le seguenti opere,


Madonna, Museum of Fine Arts, Boston

Cristo porta la Croce e Madonna, National Gallery, London

Disegno attribuito a Boccaccio Boccaccino, Cavaliere di schiena, Art Museum-Fogg Museum of Harvard, lascito Charles A. Loeser.


Ragazza gitana, olio su legno, 24 x 19 cm Galleria degli Uffizi, Firenze.


Madonna con bambino, olio su legno, Muzeul National de Arta, Bucharest

1, vedi alla voce wikipedia "Boccaccio Boccaccino", basata al momento su M. Tanzi, Boccaccio Boccaccino, Soncino 1991.





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la sentenza è del Giudice o dell'uomo che indossa la toga?

C'è un problema di fondo ed è il seguente: per il giurista la sentenza rimane tendenzialmente incomprensibile1; e tuttavia quando si legge una sentenza, bisogna sforzarsi di comprendere quanto sia arduo il compito di quest'uomo giudice, che si veste della legge, venendo così privato giustamente della libertà di esercitare la attività giurisdizionale a proprio piacimento, non potendo scegliere gli atti da considerare e le azioni da compiere secondo ciò che il proprio animo può suggerirle.
Il giudice è sempre assillato dai dubbi, diviso tra l'adesione ad un precetto astratto e la libertà etica ce vuole sottrarre ai convenzionalismi. Questo rappresenta l'istante più delicato, cioè quello nel quale la libertà etica si proietta nelle fessure delle norme, trasparendone.
Bernanos diceva, si legge sempre nell'articolo che ho citato, "non sono le regole a custodire noi, ma siamo noi a custodire le regole". il dubbio e le regole. Se c'è dubbio non si sa quale regole debba operare, perchè la regola opera in quanto disciplinante di un accadimento tipico, ed la sua tipicità che ci fa apprezzare la sua prevedibilità e la anticipata previsione, scartando ogni tentativo di governo particolare e singolare delle vicende umane da parte di una autorità.
Intanto nel processo si cerca sempre di far rivivere un fatto passato, è solo il fatto che indica la regola;
è un Atlantide sommerma che il giudice cerca di ritrovare. ecco che il giudice valuta quello che gli apportato e poi ricerca nei limiti della ricerca a seconda nell'ambito processuale e della forma processuale. è vero, la forma del processo può limitare la vita, ma non c'è altra strada.
non c'è altra direzione, se non quella della ricerca frammentarie, delle ipotesi su questi frammenti, delle ombre e delle luci, ma che èpian piano si ripuliscono, si fortificano della parole del diritto.
Il diritto non è materia statica ma dinamica e si evolve con i ritmi sociali: il diritto e la fissità dei valori, questo è il tema cruciale. il diritto costringe al cambio dei valori o è soltanto modalità concui si epsrimono diversamente gli stessi valori?
il momento della sentenza che è momento applicativo è ben diverso dal momento della produzione normativa, contrariamente a quello che pensava il Kelsen quando sosteneva che il giudice è il legislatore delle individualità.
Frosini riteneva2 che il sistema giuridico fosse simile ad un grande specchio infranto ed ognuno dei suoi frantumi rifletta l'immagine della realtà sociale, che in quello specchio si rispecchia per riconoscersi, osservarsi e per correggersi.



1 Maria Paola Borelli,Camera Penale di Catanzaro,venerdì 23 febbraio 2007
2 Ibidem

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sabato 28 marzo 2009

Vorrei postare qui un breve video tratto dal sito YouTube.com, su un intervento di Vittorio Sgarbi, che tralasciando le forme! dell'attacco mediatico che rivolge all'altro ospite, accenna sul finire ad un concetto interessante, al quale si deve prestare attenzione, la forma e la vita nel conflitto immanente, secondo la poetica che fu di Luigi Pirandello.



aggiungo di seguito una breve registrazione tratta da una conferenza nella quale Luigi Pirandello accenna alla sua poetica della forma. Il brano è preso dall'Enciclopedia Encarta online, che lo ha inserito nel suo archivio multimediale su concessione della Discoteca di Stato.

Conferenza pubblica di Luigi Pirandello nella quale si illustra "la poetica della FORMA
"

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Benchè sia meglio essere metodici nelle nostre ricerche e considerare l'Economia delle Ricerche, tuttavia non c'è nessun errore logico nel tentare ogni teoria che ci capiti per la testa, nella misura in cui essa sia adottata in un senso tale da permettere all'investigazione di proseguire senza impedimenti e senza scoraggiamenti.
Charles Sanders Peirce
(si veda Note on the theory of economic of research)

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venerdì 27 marzo 2009

Qualche briciola giuridica sul caso Eluana Englaro

Su questo tema si deve partire da un principio sancito nella nostra Costituzione; l'art 32 al comma 2 così dice: "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana." Proviamo a capirne il significato.
La prima parte del 2 comma risuona evidente. Pare evidente che il termine nessuno indichi alcuna persona, indistintamente dal fatto che essa sia un cittadino, ma vuole riferirsi univamente al suo essere persona umana( pare che la derivazione sia ne ipse unum o ne quidem unum). Questo primo concetto è di primissimo piano nel dibattito pubblico, perchè affermando la non disponibilità della vita, quindi l'impossibilità di scegliere la morte come conseguenza ultima dell'abbandono alla patologia, intesa questa come qualunque tipo di malattia, cioè una alterazione dello stato fisiologico o psicologico del corpo in grado di ridurre, modificare negativamente o persino eliminare le ordinarie funzioni del corpo come organismo, senza esercizio verso di essa di alcuno contrasto, si esprime implicitamente il divieto di scegliere cure inefficaci o inerzia semplicemente. Bisogna poi ricordare, come risulta dalla elementare definizione di patologia, l'esito di morte, è una delle possibilità a cui conduce la patologia ma non è l'unica, anzi ad essa affiancandosi tutte le sole riduzioni di funzionalità cui la patologia può condurre nel suo esito finale. Ciò per dire che porre in crisi il principio per cui le cure sono obbligatorie, può indurre ad una limitazione della libertà ben maggiore di quella circa la disponibilità della vita.
Affermare il precetto dell'art 32 significato quindi porre un limite alla medicina. Non il limite che le è proprio come disciplina, il limite concettuale o il limite pratico, bensì un limite giuridico, essendo la medicina una scienza che incide più delle altre sull'uomo.
Ora la questione più delicata, accettato il principio del rifiuto delle cure ( cosa ultimamente non così pacifica), riguardo il come questo rifiuto si renda conoscibile a coloro che sarebbero chiamati ad esercitare i trattamenti sanitari. Approfitto poi per ricordare che la costituzione parla di trattamenti sanitari, e non soltanto di terapie. Trattare ha come significato precendente a quello secondario di curare, il maneggiare, derivando da latino tractum supino di trahere, cioè trarre, da cui si prende l'idea derivata di muovere nello spazio con moto continuato.
Cioè il trattamento è una qualsiasi attività operata nell'ambito di una struttura sanitaria o di un soggetto svolgente attività medica o paramedica. Quindi, il concetto è certamente più ampio di quello definito da θεραπεία, che indica il curare o modo di curare escludendo magari il mantenere ( ove il mantenere non sia un continua opporsi all'incidere della patologia.
Aggiungo una considerazione: se si dovesse costruire la regola dell'art 32 nel seguente modo, cioè nessuno può essere obbligato ad un trattamente sanitario purchè non lo porti a privarsi della vita, o meglio della sussistenza in vita, cioè di quella condizione che distingue gli oggetti animati da quelli inanimati, si dovrebbe cominciare a riflettere intensamente sulle possibili relazioni causali, non sempre perfettamente dominabili; se per es. si rifiutasse la cura di un dente ammalato, normalmente la patologia porterebbe alla perdita di un dente e questo sarebbe il suo esito, non già quello di uccidere l'organismo. Ma potrebbe anche capitare che in seguito a questo, si diffonda per qualche motivo un'infezione nell'organismo e che questa progredendo invece privi della vita. Ora a che punto di questo percorso scatterebbe l'obbligo di cura e l'estinzione del diritto al rifiuto? (non so forse dovremmo pensare che una legge ad hoc prevede un trattamente sanitrio obbligatorio con un qualche antibiotico immediato tempo successivo alla caduta del dente o al termine del processo di erosione); Così pensata mi sembrerebbe un po' pasticciata.
Ora procedendo dal principio del rifiuto delle cure, si pone il problema chi sia preposto a rifiutare. L'art 32 usa appunto il pronome "nessuno" intendendo facendo intendere con ciò che il singolo avedno pieno facoltà di decisione personalmente la esprime; su questo punto non ci sono particolari problemi.
Capita però in tutte le società, che taluni individui siano, causa la malattia per la quale potrebbero rifiutare le cure o per altra pregressa, incapaci di esprimere un valido consenso.
Si badi che incapaci significa privi in parte o del tutto della capacità di agire.
Quando si è privi della capacità di agire, accade che l'ordinamento cerchi di tamponare questa carenza affiancando all'incapace, alcune figure( persona fisiche talvolta integrate dal controllo giudiziario) che integrino questa mancanza potendo esse stesse esprimersi in vece di chi non può più farlo. Una di queste figure può essere il tutore. Il padre di Eluana Englaro ricopriva proprio questa posizione affiancato anche da un curatore. La domanda è: il tutore( sia esso il padre o no) può decidere di staccare la spina? Cioè, può decidere per l'interruzione di un trattamento sanitario che mantenga in vita opponendosi ad una patologia, oppure accponsentire per una terapia( che appartiene al genus del trattamento sanitario) che sia particolarmente rischiosa( secondo la probabilità o la statistica medica)?
I giudici nel caso di Eluana, hanno autorizzato il padre a prendere una decisione, non hanno decretato che si dovesse staccare la spina. E su questo punto infatti che si può criticare la scelta del padre-tutore, che sulla base di pochi elementi, si è fatto portatore di una volontà certa e indiscutibile della figlia circa le di lei volontà,(quella che si era manifestata prima del tragico incidente la rese incapace nonche diede l'avvio ad uno percorso di compromissione di alcunie funzioni fisiologiche del corpo) sui trattamenti sanitari da doversi subire, certezza sulla quale ha poi modellato la sua scelta di tutore.
Questo è il punto centrale; su quali criteri deve costruirsi la scelta del tutore in materia di salute e trattamenti sanitari? E questi criteri devono essere dettati dal legislatore, dall'esecutivo, dalla discrezionalità del tutore stesso e dalle indicazioni predette dall'incapace quando era capace.
TO BE CONTINUED....


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mercoledì 25 marzo 2009


Ciò che più colpisce nella Pala di Brera è la giovane donna in adorazione per non turbare il riposo del figlio. è letteralmente in adorazione del figlio, come tutte le mamme. Ma questa madre è la Madonna, la madre di Dio fecondata dalla Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato così come recita il Credo, sunto teologico delle fede cattolica.
L'immagine comune della mamma in adorazione, che è comprensibile a tutti, diventa però nella collocazione di Piero della Francesca metafora di un grande mistero teologico, solenne meditazione sul dogma mariano. Nella Madonna di Brera trovano unione due motivi teologici fondamentali: l'identificazione di Maria con la Santa Chiesa ( questo tema si ritrova già in Van Eyck nella Madonna col Bambino di Berlino) di cui è specchio e figura e vigila in preghiera sul corpo di Cristo. La Chiesa è eterna e Santa perchè testimone e custode del Corpus Christi.
Piero della Francesca propone la semplicità del Vero attraverso la efficacia universale del Simbolo.
Abbiamo detto che Maria è la madre di Dio e dello Spirito Santo come elemento fondante la teologia cristiana cattolica. Ecco che l'altro dei due motivi teologici riguarda proprio lo Spirito Santo, per virtù del quale avviene il concepimento e il parto virginale: entrambi sono simboleggiati dall'ovum struthionis. L'uovo di struzzo nella mistica medievale, che lo riteneva fecondato dai raggi del sole, era usato come figura dell'Immacolata Concezione di Cristo1( in realtà questa espressione è assolutamente impropria in quanto sappiamo che l'Immacolato Concenzione è questione teologica riguardate esclusivamente il concepimento di Santa Maria e divenuto dogma con la bolla Ineffabilis Deus; parlare della immacolata concenzione di Cristo è una sciocchezza infatti mi appare ovvio che così come la Madonna non sia stata assoggettata al peccato originale tanto più la stessa cosa sia per Dio in Terra) Per tornare al nostro discorso sul simbolismo architettonico, aveva detto Alberto Magno: "Se il sole può far schiudere le uova di struzzo perchè una Vergine non potrebbe generare per opera del vero Sole?"( in parte per tornare all'accenno precedente mi pare di ricordare che Alberto Magno si occupò anche della questione sulla Immacolata Concenzione, che ricordiamo ancora non va confuso col parto virginale di Maria)
Ci sono anche altre spiegazioni per l'uso di questa sorta di sferoide. A.M.Maetze2 ha sostenuto ponendo l'attenzione sulla grande conchiglia alle spalle di Maria, che questo decoro architettonico potrebb essere ancora una illusione al parto virginale, infatti una trattatello del IV secolo di Efrem il Siro3, minore e poco noto Padre della Chiesa, riprende una credeza dei naturalisti antichi che pensavano che la conchiglia producesse la perla senza il bisogno della fecondazione maschile: il concepimento verginale della Beata Maria sarebbe avvenuto allo stesso modo incarnationis causa.
Ma resta che l'oggetto appeso sembra più un uovo che non una perla.
Guillaume Durand de Mende nella sua opera del 1284 Il Razionale o Manuale dei Divini Uffizi, Libro utile ed indispensabile per conoscere tutte le tradizione artistiche e religiose del Medioevo, così come scrisse l traduttoreCharles Barthèlèmy, scrive: "alcuni affermano che lo struzzo, uccello smemorato qual è, abbandoni le sue uova nella sabbia; quando infine, dopo aver visto una certa stella, se ne ricorda, ritorna da esse e le cova con riguardo.Si appendono dunque le uova di struzzo nella chiesa per significare che se l’uomo a causa del proprio peccato è stato abbandonato da Dio, illuminato improvvisamente da una luce divina si accorge del proprio errore, si pente ritorna in sé, e vedendo questo luminoso bagliore, viene abbagliato dai raggi di questa benefica luce, della quale parla anche San Luca, quando il Signore guardò improvvisamente Pietro dopo che egli ebbe rinnegato Cristo. Queste uova si appendono in chiesa, anche perché notandole ciascuno pensi che l’uomo dimentica facilmente Dio, a mano che sia illuminato dalla stella, ossia dalla grazia influente dello Spirito Santo, e non si ricorda di andare a lui, con la pratica delle buone opere” e aggiunge anche che si appendono nelle chiese uova di struzzo e cose di simil genere che suscitano ammirazione e che si vedono raramente, affinchè il popolo sia attirato da ciò nella chiesa e sia toccato dalla vista di questi oggetti4.
1 Antonio Paolucci, Piero della Francesca, La pala di Brera, Silvana Editoriale, 2003
2 A.M.Maetze, Piero della Francesca, Cinisello Balsamo, 1998
3 Efrem il Siro, De Margarita (intorno alla perla)
4 De Mende, Manuale per comprendere il significato simbolico delle cattedrali e delle chiese, edizioni Arkeios.

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martedì 24 marzo 2009

storia del cruciverba

Vorrei segnalare il libro di Stefano Bartegazzi, enigmista e saggista, che ha pubblicato con Einaudi "L'orizzonte Verticale", primo libro italiano dedicato alla storia del cruciverba e al "mondo che per gioco e per frammenti vi si è rispecchiato". Il cruciverba è, pare strano, quasi del tutto assente dalla storia del giornalismo, del costume, della Lingua sebbene sia "un elefante nel salotto della comunicazione del Novecento".
é vero, alcuni lo ritengono molto antico ma sbagliano: è l'orizzonte del Moderno, è del '900, coma la catena di montaggio, il Cubismo, il JAzz, il reportage.
Vuoto, è una griglia ortogonale di caselle; pieno, è un caledoidoscopio alfabetico; ma più di tutto è una sfida con se stessi sulla conoscenza delle parola della lingua, i nomi del mondo, definizioni indiziarie e soluzioni congetturali; "il linguaggio delle definizioni e delle soluzioni ritorna in romanzi, poesie, test di intelligenza, titoli di giornale".
"Il fatto che il linguaggio scritto si sviluppi in una direzione univoca è un'idea fissa che a noi, oggi, deriva soprattutto dalla forma simbolica instaurata dall'invenzione della stampa a caratteri mobili di Gutenberg: "per l'Occidente l'aggettivo razionale è stato a lungo sinonimo di uniforme, continuo, consequenziale"1. Il carattere di nastro continuo che si sviluppa indefinitivamente in una sola direzione non è dunque un dato originario, ma il processo di semplificazione industriale e culturale relativamente recente. TO BE CONTINUED...

1: Marshall MCLuhan, Understanding Media, the extension of man, McGraw-HIll, New York, 1964, trad.it E.Capriolo, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano, 1967

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domenica 22 marzo 2009

Nel gennaio di quest'anno, è apparso un articolo che ha fatto molto discutere: l'autore è il teologo Vito Mancuso, che il grande pubblico ha conosciuto con il saggio "l'anima e il suo destino" per i tipi dell'editore Raffaello Cortina

Dice Mancuso in questo articolo1 che ciò che tiene unita una società non è altro che la religione; ed intende l'accezione che le si può attribuire guardando all'etymon... da religio, che vuol dire per il teologo, legame o principio unificatore. Fa cioè discendere la parola da re - ligere2; qualcuno ha prontamente ribattuto che un'altra possibile origine sarebbe da re-legere3, cioè cura attenta, sguardo al divino e quindi al totalmente altro; l'autore della critica è luca doninelli in un articolo apparso su di un quotidiano nazionale; questa correzione etimologica sembra alquanto inutile in quanto in realtà, Mancuso non manca di allineare al principio unificatore la natura di trascendenza alla realtà più grande che permane nel fenomeno religioso. TO BE CONTINUED....


L'idea di Mancuso prosegue quindi con gli esempi di Roma e dell'America, la prima nel passato e la seconda nel presente, hanno rappresentato due Idee in grado di far si che i singoli formino un sistema ordinato, unificato, perciò operativo.
Una prima critica trovo che si possa muovere proprio sull'uso della parola religione; è pur vero che questa rappresenta un insieme di credenza e di comportamenti, sia di carattere rituale che culturale, che tuttavia hanno lo scopo di mettere in rapporto il gruppo sociale con il sacro.
Ora, motli sono stati di fenomeni di "accorpamento e unificazione" che hanno reso compatte forti e vincenti talune comunità, ma non sempre si può rintracciare qualcosa di sacro, almeno senza dissacrare il sacro stesso. Bisogna intendersi su cosa vogliamo oggi considerare sacro, che cosa sia la sacralità, e se tutto ciò che sia metafisico o mitico sia sacro.
TO BE CONTINUED...




1 Vito Mancuso, la religione civile che manca all'Italia, La Repubblica, 13-01-2009
2 Lactantius,
Divinae institutiones IV, 28
; Augustinus Hipponensis, Retractationes I, 13
3 Cicero, De natura deorum II, 28, 72

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la religione civile per Vito Mancuso, autore de "L'anima e il suo destino"

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può esistere una ricerca disinteressata della Verità?

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coscienza collettiva

Secondo Durkheim, che è stato un antropologo e un sociologo francese, la coscienza collettiva è differente dalla coscienza individuale: è un insieme di rappresentazioni, norme e valori, condiviso dai membri di una società, perciò è la dimensione societaria di questo insieme di persone e la distingue da un aggregato semplicemente. Si differenzia anche dalla coscienza di classe, che è quella consapevolezza-rappresentazione che un gruppo ha di se come partizione sociale.
La coscienza sociale propone strutturazione e regolazione dell'interazione e del comportamento degli individui appartenenti alla comunità tramite rappresentazioni collettive, valori e norme, ma anche istituzioni e sanzioni, che vanno a costituire e disporre la sua stessa dimensione sociale. I membri quindi sono regolati nelle loro relazioni da questa "coscienza collettiva" come totalità dei fattori che orientano sia la produzione materiale sia quella intellettuale.

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sabato 21 marzo 2009

Generalmente, quando parliamo di coscienza indichiamo un particolare stato interiore. è questa una definizione generalissima, che separa unicamente l'esteriorità dall'interiorità. La difficoltà di definire che cosa sia una coscienza è data dalla difficolta di ottenerne un riscontro empirico, almeno in senso tradizionale. Certamente l'etimologia ci riporta alla lingua latina, cum scire, sapere con o sapere insieme. Quello di cui voglio parlare non è la coscienza come condizione clinica propria della neurologia (per es. la Glasgow coma scale), cioè quello stato di vigilanza che si contrappone al coma; neppure secondo il significato che gli da la psichiatria, per la quale invece è funzione psichica che intende, separa. definisce l'io dal mondo esterno. Per alcuni queste condizioni sono preliminare alla Coscienza, per altri, essa prescinderebbe da un certo andamento della condizioni neurologiche soggettive. Pensiamo a chi sostiene l'esistenza di una coscienza nei casi clinici di coma permanente. Quando invece diciamo "è un caso di coscienza", oppure "deve vedersela con la sua coscienza" attribuiamo a questo termine ben altro consistenza. La filosofia, ma anche certa psicologia tradizionale, direbbero che è capacità di assimilare la conoscenza, come posizione successiva a quello della sola consapevolezza; è l'entrare in possesso del sapere, dove consapevolezza e coscienza sono intesi come processi psichici in senso cognitivo e non strettamente neuro-cognitivo. Sappiamo quanta parte giochi la conoscenza nel proiettarci verso il concetto di Scelta. Sempre la psicologia poi, ha usato questo termine come contrapposizione all'incoscienza, cioè stato dell'inconscio. Sarebbe interessante riflettere sul come l'incoscienza prema sulla coscienza.
Veniamo allora all'ultimo punto, che sembra segnare il centro: l'Etica ci direbbe che la coscienza è la capacità per cui distinguiamo il Bene dal Male, per comportarci in un certo modo: è questo il concetto fondamentale di coscienza quando si parla di libertà di coscienza. (queste riflessioni sono volutamente generiche). Ai lettori i commenti.

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Ma esiste una coscienza collettiva? E quella individuale? Ma se la coscienza deve pur esserci sempre per tutti i tipi di problemi più o meno importanti, può anche esser vero che una persona semplice, incolta, possa avere la coscienza confusa, nel senso che non sappia che pesci pigliare e si affidi alla coscienza altrui (così su un quotidiano qualche giorno fa). Sulla coscienza collettiva i prossimi post. Commenti benvenuti.

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venerdì 20 marzo 2009

ancora sui podromi del nobile giuoco degli scacchi...

Abbiamo parlato dei giochi antichi e di tutti quelli che avevano in comune qualcosa di simile al tavoliere degli scacchi.
Tuttavia nel precedente "post" non ho fatto cenno a quelli che possono essere considerati effettivamente gli antenati degli scacchi.
Su queasto punto ho ritrovato alcune notizie interessati e bibliograficamente dettagliate a cura del circolo scacchistico "ZANITRIKION".Tenterò di riportare alcune; pare che il gioco anticamente più simile agli scacchi, come noi li conosciamo oggi, sia di origine indiana; fece la prima comparsa nelle regioni nordoccidentali dell'antica India attorno al 600 d.C. (su questo punto sempre il già citato Murray in "A history of Chess", it."Una storia degli scacchi". Oxford, 1913). Taluni sostengono che passò in Persia al tempo di Cosroe I Nushirawan (531-578 d.C.) o a quello di Cosroe II Parwiz (590-628 d.C.) assumendo il nome di Chatrang, come risulta da antichi poemetti scritti in lingua pahalavica ( i testi sono il Vicarisn i Chatrang comunemente chiamato Chatrang Namak). Tra gli indiani avrebbe potuto chiamarsi Chaturanga. Questo chaturanga è, secondo gli studi più attuali, quello che ha maggior possibilità di fregiarsi del titolo di antenato progenitore degli scacchi. I cinesi avevano giochi simili, allo stesso modo di ciò che abbiamo detto per altri popoli antichi, ma questi passatempi possederebbero soltasnte alcuni tratti comuni agli scacchi, non potendosi così collacare in una posizione di originalità (Bidev P.,"How old is chess", in British Chess Magazine, 1987, pp. 214-21). Già prima di arrivre in Persia il gioco aveva cominciato a circolare grazia anche alle vie commerciali dei carovanieri, nel Borneo era Chatur, nell'isola di Giava Chator e nella regione di Burma Chitareen.
La Persia, come si sa, viene invasa dagli Arabi, intorno al 637 d.C., vicenda nella quale fu coinvolto Khālid ibn al-Walīd, una capo guerriero islamo-meccanico, del clan coreiscita, che da quanto è raccontato,prima della sua conversione, battagliò anche contro le truppe musultamane comadate dal profeta Muhammad, che in quella occasione restò ferito. Questa invasione comporta il cambiamento di Chatrang in Shatranj, infatti i suoni persiani di "ch" e "g" erano sconosciuti alla lingua araba. Sarebbe proprio questa civiltà, con la sua attività espansionistica e dominatoria ad aver veicolato il giuco verso l'africa e poi in Europa. Si è anche sostenuto che il gioco sia entrato dalla Russia o da altre regioni nord-europee.
Joseph Needham, storico della scienza, orientalista e biochimico, nella sua opera Scienza e civiltà in Cina, che è un enciclopedico opus ma
gnum, parla anche di una possibile attribuzione del gioco degli scacchi ai cinesi; la tesi è tuttavia minoritaria. (Needham J.: Science and Civilisation in China, Cambridge, 1962, pp. 314-334, non sono stato in grado di reperire il numero deòl volume). su questi punti comunque anche la rivista Scacco Luglio/Agosto 1990, pp. 294-298.








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mercoledì 18 marzo 2009

a proposito della STORIA degli SCACCHI: nell'antichità...

In realtà pare che gli arabi avessero conosciuto questo giuco dagli indiani, che con molta probabilità lo incentarono più di 1500 anni fa.

Di certo non era noto ai popoli dell'antica Europa. I romani tuttavia usavano una tavola per il gioco detto dei "latrunculi" o "ludus latrunculorum" o più semplicemente "latrones". Latruculus deriva dal diminutivo di latro.
Il tavoliere sembrerebbe assomigliare a quello degli scacchi, ma probabilmente il gioco si avvicina più a quello della dama; deriverebbe poi da alcune varianti di giochi già noti ai greci fin dal tempo di Omero (petteia, pessoí, psêphoi o pente grammaí). Patteia deriva da pessos, pl. pessoi, che indicava le pedine. In realtà già prima della nascita di questo gioco, il termine poteva indicare le pedine di un gioco in generale. Omero utilizza questo termine per indicare i pretendenti di Penelope (Οδύσσεια,1,107: "πεσσοῖσι προπάροιθε θυράων θυμὸν ἔτερπον"). Questi giochi. i greci li giocavano con una damiera, composta da 42 quadrati, anche se non sappiamo con certezza la posizione che le pedine occupavano su di essa. Siha una testimonianza di tavoliere con 12 pezzi disposti disordinatamente, in un gruppo di terracotta ritrovato da Conrad Bursian, filologo e archeologo tedesco dell'ottocento, nel quale appare un ragazzo e una donna attorniati dal altri individui mentre giocano questo gioco. Si ha poi un'altra rappresentazione in unanfora datata 530-525 a.C, di Εξηκίας, ceramografo che realizzò principalmente ceramica a figure nere, alle quali in quell'epoca cominciarono ad affiancarsi quelle a figure rosse, che poi avrebbero scalzato le prime. Come vasaio e come pittore, Exekias fu un innovatore ed immaginò nuovi temi, un esempio è proprio il pezzo conservato nel museo etrusco-gregoriano dei musei vaticani.
Quest'anfora rappresenta Aiace e Achille concentrati in un gioco da tavolo. Non sappiamo certezza di che gioco si tratti; per alcuni potrebbe essere astrangolo, un gioco a 4 dadi, ricavati dalle ossa di capre o montoni (in anatomia umana l'astragalo è un osso appartenente al tarso del piede, che si articola in alto con le ossa della gamba e in basso con il calcagno ed ha una forma grosso modo cubica). Vi si leggono le parole:"Eksekias m'epoiesen" nella forma del trimetro giambico.
Potrebbe trattarsi tuttavia anche di petteia; anche Erodoto parla di questo gioco nelle Istorie,che i Lidi avrebbero praticato come distrazione contro la fame. Successivamente il giuoco petteia venne chiamato polis, le cui regole sono descritte nell'Onomastikon di Giulio Polluce, retore e lessicografo greco del II secolo d.C. Quest'opera, di cui restano estratti considerevoli, è dedicata all'imperatore Commodo, che fu suo allievo ed appare come un elencazione di vocaboli e sinomini, con exempla ed explicationes; è particolarmente noto il libro IV, nel quale si parla delle maschere e dei costumi greci; l'onomastikon infatti è soprattuto una fonte preziosa per la storia del teatro greco, ma anche, come ci dimostra il riferimento alle regole del gioco, per il folklore e la tradizione in generale. L'oratore ci spiega che i giocatore devono portare la pedina dall'altra parte della damiera nella propria città, ecco perchè la patteia viene poi chiamata polis. Se la pedina viene circondata da altre dell'opposto colore, può essere eliminata.
Pare che anche Aristotile nella Politica accenna a questo gioco in senso figurativo, parlando degli apolidi, i greci cacciati dalla citàà di Atene, che sono paragonati alle pedine rimaste isolate da quelle dello stesso colore, le quali devono aspettarsi grandi tribolazioni. Ottima metaforo socio-filosofica del ruolo della società civile, se si ricorda quando pocanzi detto sul destino della pedina circondata. (si veda comunque F.Barone, Ludosofia, Edizioni Interculturali, 2005).
Aristotele usa la figura del Gioco della Citta anche in senso sociologico, il pezzo senza legami in rapporto alla sua concezione dell'uomo come animale politico, cioè come animale gregario.
L'apolis o è un meschino o è un superiore all'uomo, anche se è senza famiglia, athemistos cioè che ignora le regole della vita civile, quindi senza legge, infine senza focolare.

Oltre a questo gioco i greci praticavano anche quello della Kubeia,nel quale si adoperavano anche i dadi. Come sostiene l'antichista Oswyn Murray, questa damiera era priva di quadrati e con sole linee.( si veda sul punto H.S.R.Murray, "Giochi del mondo antico", ed.Oxford e "storia dei giochi da tavoliere, eccetto gli scacchi" ed.Oxford, entrambi in inglese).

Sarebbe opportuno a questo punto anche accennare all'antico Egitto; presso gli egiziani, esisteva giochi con la tavola damiera e le pedine, lo scavo di El Mahash ha portato alla luce una damiera 3x6 con pedine rotonde, databili al 5000 a.C., periodo predinastico.
la tavola è perciò divisa in 3 linee orizzontali. Questi giochi da tavola dell'antico Egitto sono stati spesso paragonati alla dama, ma questo avveniva per un errore terminologico (Jeu de dames o draughts) derivante da inesattezze della descrizione. Questi giochi avevano infatti in comune solo la tavola e le pedine. Dice Murray ancora che questi erano solo giochid corsa e che l'unica complicatezza fosse data dall'usare la damiera con i quadrati segnati. Giochi simili a questi esistevano e sono stati ritrovati in Mesopotamia, Creta, Asia Minore.
Appare giusto ciò che dice Huizinga:«Il gioco è più antico della cultura, perché il concetto di cultura, per quanto possa essere definito insufficientemente, presuppone in ogni modo una convivenza umana, e gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a giocare. ... Gli animali giocano proprio come gli uomini; tutte le caratteristiche fondamentali del gioco sono
realizzate in quello degli animali» (J. Huizinga, Homo ludens, Amsterdam, 1939, trad. Ital. 1946, Einaudi Edit. Torino).

Per continuare, durante la quinta dinastia in Egitto appaiono anche le damiere 6x6, ma non si tutt'oggi in grado di stabilire le connessioni fra questo antico gioco e la dama, della cui storia qui non ci occupiamo, ne tantomeno appaio possibili implicazioni con gli scacchi.
Tra i romani si giocava a lutrunculi, l'abbiamo detto all'inzio ed il primo a menzionarli è Varrone nel decimo libro del de lingua latina (ut in tabula solet in qua latrunculis ludunt).
Lutrunculi significa come direbbero gli inglesi, robber-soldiers, cioè mercenari. La tavola pare che fosse 8x8.
Sulla storia del gioco da tavola nell'antichità non mi sembra utile dire nulla di più. Aspettare un prossimo post sul seguito della storia.







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la nascita del nobile giuoco degli scacchi

Pare che il nobile giuoco degli scacchi sia stato inventato dagli arabi. Una leggenda, che Paul Maurensig cita nell'incipit nel suo noto romanzo "La variante di Luneburg", racconta che quando il gioco venne presentato al sultano, questi,entusiasta, volle premiarne il geniale inventore, dichiarando che avrebbe esaudito ogni suo desiderio.
Così l'inventore chiese come compenso di avere tanti chicchi di grano quanti risultavano da questa apparentemente semplice addizione: un chiccho sulla prima dell 64 caselle della scacchiera, 2 sulla seconda, 4 sulla terza e così via;

la somma la somma infatti dovrebbe riferirsi ad una serie che partendo da 1, si costruisce sulle potenze del 2, per a(n)=2^n;
per es. la successione potrebbe essere così: 1, 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 256, 512, 1024, 2048, 4096, 8192, 16384, 32768, 65536, 131072, 262144, 524288, 1048576, 2097152, 4194304, 8388608, 16777216, 33554432, 67108864, 134217728, 268435456, 536870912, 1073741824, 2147483648, 4294967, etc

quando il sultano si rese conto che una simile richiesta era inesaudibile poichè non sarebbero probabilmente bastati tutti i granai della terra, reputò opportuno, per togliersi dall'imbarazzo di non poter onorare la parola data, di fargli tagliere la testa.
Successivamente il sultano si appassionò al nuovo gioco così tanto da smarrire la ragione: pagò perciò un prezzo ben più alto.





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